Tutto ha una fine. Si sa, è una
frase anche banale. Ma, anche dopo, ci sono cose che restano, più o meno
evidenti. Di questi primi scavi, me ne rimangono molte. La famigerata
abbronzatura da archeologo, con sulla schiena la traccia evidente della
canottiera. Un po’ di inchiostro di china sotto un’unghia che non riesco
assolutamente a togliere, ricordo dell’ultima frettolosa siglatura di ceramiche
al laboratorio. I muscoli delle braccia un po’ più evidenti di prima. Fino alle
sei di sabato pomeriggio avevo il lieve senso di nausea dell’alcolica festa di fine
scavo. Ma queste sono solo cose fisiche. Professionalmente, ho imparato molto,
Al di là del fatto che ho finalmente qualcosa con cui riempire il mio vuoto
curriculum. Ma questo è un aspetto molto marginale. Non ho mai pensato di
studiare o di lavorare per fare soldi, molti mi giudicheranno un’irresponsabile
sognatrice ma una vita basata sul profitto mi è sempre sembrata squallida, e in
ogni caso non avrei scelto di intraprendere questa strada se lo avessi voluto.
Parlo delle cose che ho imparato, di ciò che ho visto. C’è un’emozione
particolare e unica, forse impossibile da descrivere, quando all'improvviso,
dopo giorni passati a rimuoverlo, uno strato di cenere finisce e ne comincia
uno di argilla, di una sfumatura più scura e così plastico che puoi divertirti
con i tuoi colleghi a fare delle statuine a forma di Totoro di Miyazaki. Anche
la commozione nel fare un giro nell'area cimiteriale e vedere due bambini
sepolti l’uno accanto all'altro, con le mani sul ventre, ha poco di
paragonabile. Per non parlare di quando all'improvviso ti spunta davanti il
manico di una lucerna di una ceramica che ti pare così perfetta, nel suo
delicato colore rosa chiaro e nella sua sottigliezza. Ci sono poi i deliri
improvvisi, le foto di gruppo fatte alla pausa postate su facebook, le frasi
senza senso dette a mezzogiorno, quando il caldo è al suo picco e resta ancora
un’ora di lavoro prima di smontare, lo scassatissimo gazebo che ti cade in
testa esalando l’ultimo respiro, sostituito a sorpresa il giorno dopo dal
comune che te ne regala uno nuovo. Ci sono le battute, un campione di sedimento
avvolto in carta stagnola che viene chiamato ‘Bambinello’ perché effettivamente
la sua forma, quando lo prendi tra le braccia, assomiglia a quella di un
neonato, il capo area che ogni volta che qualcuno del settore romano viene a
dirti le sue mirabolanti scoperte ti ricorda che tu non hai il nulla cosmico, ma
una canaletta alla cappuccina unica e bellissima, la collega che ha un riso così
contagioso e particolare che ogni volta che ride chiunque lo senta in tutto lo
scavo deve bere un sorso d’acqua perché gli spagnoli hanno deciso di lanciare
questa piccola presa in giro. E poi, le serate, uniche, in alloggio. I giorni
che più ho apprezzato lì sono stati il sabato e la domenica, quando da
ventisette passavamo a massimo dodici e allora rimenavamo a riposarci cercando
di non delirare per il caldo dalla mattina al pomeriggio, per poi andare al bar
a bere qualcosa, stare su internet e mangiare una pizza a cena, per infine
guardare tutti insieme un film con il computer o chiacchierare sul retro della
palestra del più e del meno. Spesso, però, le nostre conversazioni riflettevano
le normali, credo, preoccupazione della nostra generazione: il lavoro quasi
impossibile da trovare se non si va all'estero, l’incertezza del futuro e del
potersi creare una vita tutta sua, il piano b di riconvertirsi in
qualcos'altro, perché magari l’amico di qualcuno ha smesso di fare l’antropologo
ed ha aperto un negozio biologico riuscendo finalmente a vivere come Dio
comanda e qualcuno pensa di fare la stessa cosa, se tra qualche anno continua
ad essere nella situazione di vivere solo con una insufficiente borsa di
dottorato.
Ci sono state tutte queste cose e
anche molto di più in queste cinque settimane, e sinceramente, tralasciando il
momento in cui mi sono svegliata con la sensazione di aver decisamente
esagerato con il bere la sera prima, non poteva finire in modo migliore. Lentamente,
sabato mattina, tutti se ne sono andati, ad orari diversi. C’è chi ha pianto,
chi ha fatto un’ultima battuta abbracciando le persone con le quali aveva
vissuto così tanti ricordi. Per tutti, c’è stata la promessa di rivedersi
l’anno prossimo, quando gli scavi a Santa Maria di Mesumundu riprenderanno alla
ricerca di quel monastero benedettino che tutti ignoriamo dove diamine sia.
Ho capito tanto di me stessa. Ho
capito il livello di stanchezza che riesco a sopportare, e quanto, alla fine,
una doccia fredda possa non essere così terribile. Probabilmente l’anno
prossimo farò tre settimane invece di cinque. Le tre ultime, perché le tre
prime mi darebbero la stessa sensazione del non finire un buon libro giallo. Ho
capito anche che amo l’archeologia, che resta una delle mie più grandi passioni,
ma, anche se lo sospettavo da un po’, che non è quello che voglio fare per
sempre. Continuerò a fare campagne di scavo perché mi piace, ma basta. La mia
via sono i documenti, il ‘rinchiudersi in un ufficio in mezzo a vecchie e muffite
scartoffie e non vedere nessuno’, come lo ha spregiativamente definito un
collega una volta che si parlava di ciò che pensavamo di studiare dopo la
triennale. Credo che sia tra le cose più importanti che ho imparato in queste
settimane. Ed è una delle magie del mio corso di studi. Pochi hanno la fortuna
di poter far fin dall'inizio il proprio mestiere, pur senza essere pagati. E’
una fortuna assoluta. E della quale sono felice di aver approfittato.