lunedì 27 luglio 2015

Quel che resta degli scavi

Tutto ha una fine. Si sa, è una frase anche banale. Ma, anche dopo, ci sono cose che restano, più o meno evidenti. Di questi primi scavi, me ne rimangono molte. La famigerata abbronzatura da archeologo, con sulla schiena la traccia evidente della canottiera. Un po’ di inchiostro di china sotto un’unghia che non riesco assolutamente a togliere, ricordo dell’ultima frettolosa siglatura di ceramiche al laboratorio. I muscoli delle braccia un po’ più evidenti di prima. Fino alle sei di sabato pomeriggio avevo il lieve senso di nausea dell’alcolica festa di fine scavo. Ma queste sono solo cose fisiche. Professionalmente, ho imparato molto, Al di là del fatto che ho finalmente qualcosa con cui riempire il mio vuoto curriculum. Ma questo è un aspetto molto marginale. Non ho mai pensato di studiare o di lavorare per fare soldi, molti mi giudicheranno un’irresponsabile sognatrice ma una vita basata sul profitto mi è sempre sembrata squallida, e in ogni caso non avrei scelto di intraprendere questa strada se lo avessi voluto. Parlo delle cose che ho imparato, di ciò che ho visto. C’è un’emozione particolare e unica, forse impossibile da descrivere, quando all'improvviso, dopo giorni passati a rimuoverlo, uno strato di cenere finisce e ne comincia uno di argilla, di una sfumatura più scura e così plastico che puoi divertirti con i tuoi colleghi a fare delle statuine a forma di Totoro di Miyazaki. Anche la commozione nel fare un giro nell'area cimiteriale e vedere due bambini sepolti l’uno accanto all'altro, con le mani sul ventre, ha poco di paragonabile. Per non parlare di quando all'improvviso ti spunta davanti il manico di una lucerna di una ceramica che ti pare così perfetta, nel suo delicato colore rosa chiaro e nella sua sottigliezza. Ci sono poi i deliri improvvisi, le foto di gruppo fatte alla pausa postate su facebook, le frasi senza senso dette a mezzogiorno, quando il caldo è al suo picco e resta ancora un’ora di lavoro prima di smontare, lo scassatissimo gazebo che ti cade in testa esalando l’ultimo respiro, sostituito a sorpresa il giorno dopo dal comune che te ne regala uno nuovo. Ci sono le battute, un campione di sedimento avvolto in carta stagnola che viene chiamato ‘Bambinello’ perché effettivamente la sua forma, quando lo prendi tra le braccia, assomiglia a quella di un neonato, il capo area che ogni volta che qualcuno del settore romano viene a dirti le sue mirabolanti scoperte ti ricorda che tu non hai il nulla cosmico, ma una canaletta alla cappuccina unica e bellissima, la collega che ha un riso così contagioso e particolare che ogni volta che ride chiunque lo senta in tutto lo scavo deve bere un sorso d’acqua perché gli spagnoli hanno deciso di lanciare questa piccola presa in giro. E poi, le serate, uniche, in alloggio. I giorni che più ho apprezzato lì sono stati il sabato e la domenica, quando da ventisette passavamo a massimo dodici e allora rimenavamo a riposarci cercando di non delirare per il caldo dalla mattina al pomeriggio, per poi andare al bar a bere qualcosa, stare su internet e mangiare una pizza a cena, per infine guardare tutti insieme un film con il computer o chiacchierare sul retro della palestra del più e del meno. Spesso, però, le nostre conversazioni riflettevano le normali, credo, preoccupazione della nostra generazione: il lavoro quasi impossibile da trovare se non si va all'estero, l’incertezza del futuro e del potersi creare una vita tutta sua, il piano b di riconvertirsi in qualcos'altro, perché magari l’amico di qualcuno ha smesso di fare l’antropologo ed ha aperto un negozio biologico riuscendo finalmente a vivere come Dio comanda e qualcuno pensa di fare la stessa cosa, se tra qualche anno continua ad essere nella situazione di vivere solo con una insufficiente borsa di dottorato.

Ci sono state tutte queste cose e anche molto di più in queste cinque settimane, e sinceramente, tralasciando il momento in cui mi sono svegliata con la sensazione di aver decisamente esagerato con il bere la sera prima, non poteva finire in modo migliore. Lentamente, sabato mattina, tutti se ne sono andati, ad orari diversi. C’è chi ha pianto, chi ha fatto un’ultima battuta abbracciando le persone con le quali aveva vissuto così tanti ricordi. Per tutti, c’è stata la promessa di rivedersi l’anno prossimo, quando gli scavi a Santa Maria di Mesumundu riprenderanno alla ricerca di quel monastero benedettino che tutti ignoriamo dove diamine sia.


Ho capito tanto di me stessa. Ho capito il livello di stanchezza che riesco a sopportare, e quanto, alla fine, una doccia fredda possa non essere così terribile. Probabilmente l’anno prossimo farò tre settimane invece di cinque. Le tre ultime, perché le tre prime mi darebbero la stessa sensazione del non finire un buon libro giallo. Ho capito anche che amo l’archeologia, che resta una delle mie più grandi passioni, ma, anche se lo sospettavo da un po’, che non è quello che voglio fare per sempre. Continuerò a fare campagne di scavo perché mi piace, ma basta. La mia via sono i documenti, il ‘rinchiudersi in un ufficio in mezzo a vecchie e muffite scartoffie e non vedere nessuno’, come lo ha spregiativamente definito un collega una volta che si parlava di ciò che pensavamo di studiare dopo la triennale. Credo che sia tra le cose più importanti che ho imparato in queste settimane. Ed è una delle magie del mio corso di studi. Pochi hanno la fortuna di poter far fin dall'inizio il proprio mestiere, pur senza essere pagati. E’ una fortuna assoluta. E della quale sono felice di aver approfittato. 


2 commenti:

  1. Che bel mondo, Kore! Sarà che sei un'inguaribile sognatrice, ma almeno fai quello che ti piace fare e questo è bellissimo :)

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    1. Grazie Anto! E' un mondo affascinante nel quale c'è sempre da imparare...e sono contenta di esserci!

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